Conversazione con la scrittrice Patrizia Ciava- pubblicato il 4 giugno 2025 sul blog Poesia e Letteratura
D – Patrizia Ciava, parliamo un po’ dei suoi romanzi.
Devo dire che tutti i miei romanzi sono attraversati da un filo conduttore: la ricerca del senso della vita e il mistero della nostra presenza su questa terra. Mi interessa esplorare la condizione umana, la solitudine profonda che spesso ci accompagna, ma anche denunciare, attraverso la narrazione, l’assurdità di alcuni comportamenti umani: anziché riconoscerci come esseri accomunati dallo stesso destino, ci combattiamo, ci temiamo, ci dividiamo.
Ricorre spesso, nelle mie storie, un elemento soprannaturale – che potremmo definire realismo magico – attraverso cui cerco di ampliare lo sguardo, per invitare a guardare oltre le apparenze e suggerire che esiste forse qualcosa che va al di là di ciò che vediamo.
Il mio ultimo romanzo, Una vita quasi perfetta (Ad Astra Edizioni) appena pubblicato, disponibile anche nella versione inglese A Life Almost Perfect, pone una domanda drammatica: si può amare qualcuno a punto da lasciarlo andare? È questa la prova lacerante che la protagonista è chiamata ad affrontare: autorizzare o meno il distacco dei supporti vitali del marito, l’uomo che l’ha aiutata a guarire dalle ferite di una relazione tossica, ed è ora in coma da oltre un anno. Anche qui c’è un’indagine sul senso dell’esistenza, sulla coscienza, sull’amore che unisce e che, a volte, deve anche saper rinunciare. E sul potere della musica, che spinge a interrogarsi sull’origine stessa della coscienza. È davvero soltanto il prodotto di connessioni neuronali? Oppure esiste qualcos’altro – un’energia che sfugge ad ogni misurazione scientifica ma che ci rende unici, irripetibili, innegabilmente vivi?
Nel mio secondo romanzo, Il diritto di vivere (Libreria Croce Editore), vincitore del Premio Convivio-Giardini di Naxos nel 2009, affronto invece un tema a me molto caro e doloroso: la malattia mentale, spesso invisibile, spesso ignorata, ancora poco accettata. La protagonista ricostruisce la storia della sua famiglia e in particolare del fratello Sandro, che progressivamente cade in depressione e si isola dal mondo. È un romanzo che nasce da un’esperienza personale e che vuole dare voce a chi non riesce ad esprimere il proprio disagio, mostrando quanto siano importanti la comprensione e l’amore per riconoscere il diritto di ogni essere umano a vivere pienamente. Ma ho voluto anche esplorare un altro aspetto: il male involontario che si può trasmettere, senza volerlo, da una generazione all’altra. Un’eredità silenziosa, che spesso si insinua tra le pieghe degli affetti più sinceri. Il senso è racchiuso in una frase che faccio pronunciare al protagonista: “Mi guardo attorno e ovunque mi giri scorgo vittime, ma dove sono i carnefici? Inutile cercarli, non li troverei, siamo tutti vittime. Tutti prigionieri di una vita che non abbiamo scelto di vivere, disperatamente in lotta contro i fantasmi delle nostre stesse paure.”
Nel mio primo romanzo, Il silenzio oltre la porta (Mancosu Editore, 1995), ho condensato l’essenza di una vita intera nello spazio di una sola notte. Il protagonista si ritrova in un ricevimento surreale dove, attraverso incontri intensi e simbolici, attraversa le tappe fondamentali dell’esperienza umana: l’amore, l’amicizia, la perdita, il rimpianto. È un romanzo in cui il tempo si dilata, ogni evento si carica di un senso più profondo, ed il cui significato reale emerge solo alla fine.
Infine, il mio romanzo ancora inedito e attualmente rappresentato dall’agente letterario Vicki Satlow, Concorrenza al Paradiso, è una favola moderna – a metà tra fantascienza e utopia – che immagina un mondo improvvisamente trasformato da un’invenzione rivoluzionaria, in cui un gruppo di persone deve cimentarsi in un’impresa titanica: rendere il mondo così attraente da competere con il paradiso.
Tutte queste storie, pur diverse tra loro, condividono una stessa tensione: quella verso una comprensione più profonda di noi stessi, degli altri, e sul significato profondo di questa esperienza chiamata vita.
D – Chi scrive – un romanzo, un saggio etc. – ha sempre, secondo lei, la consapevolezza dell’importanza del linguaggio per gli esseri umani?
Sì, credo che chi scrive con autenticità – non per inseguire le mode del momento – sia consapevole del potere che la parola può esercitare. Alcune letture, nella mia vita, mi hanno profondamente cambiata: mi hanno aperto nuove prospettive, mi hanno spinta a compiere scelte importanti, talvolta decisive. Per questo avverto con forza il peso – e la responsabilità – della scrittura.
Scrivere significa condividere un pensiero, un’intuizione, un’emozione. Significa offrire al lettore uno spazio in cui riflettere, interrogarsi, sentirsi meno solo. E chi legge può immaginare, vivere tra le pagine del libro, fare proprie alcune considerazioni. Ogni parola può diventare un seme che germoglia nel tempo, accendendo una consapevolezza o facendo emergere dei dubbi profondi. È questo, credo, il senso più alto dello scrivere: creare legami invisibili tra anime affini, senza limiti di spazio e di tempo.
D – In tempi di guerre, anche importanti, sparse per il pianeta, di nuove tecnologie ancora, per certi versi, sconosciute, di nichilismo imperante e di forti disparità sociali ed economiche tra nord e sud del mondo, possono la cultura, l’arte essere strumenti positivi di crescita umana e spirituale per i popoli?
Potrebbero esserlo, senza dubbio. Cultura e arte hanno il potenziale straordinario di elevare l’animo umano, di unire i popoli, di stimolare la consapevolezza e la compassione. Ma oggi, purtroppo, si sta perdendo sempre più il senso autentico della cultura e dell’arte. Spesso vengono ridotte a mode sterili, superficiali, incapaci di lasciare un segno duraturo.
Non si incoraggiano davvero le nuove generazioni a leggere, a confrontarsi con le grandi domande dell’esistenza, ad approfondire certi sentimenti. Si preferisce una cultura “mordi e fuggi”, rapida, semplificata, priva di profondità. Inseguendo solo l’effimero e l’apparenza, si rischia di smarrire le radici del pensiero critico, della memoria, dell’empatia.
E questo, alla lunga, non è solo un impoverimento individuale: può minacciare l’esistenza stessa di una civiltà. Perché una società che rinuncia a interrogarsi, a raccontarsi e a immaginare, è una società che si autocondanna all’inerzia e alla disumanizzazione.
D – Cosa implica la vita, con il suo dolore e la sua gioia, e cosa la morte, come fine di tutto o come inizio di un qualcosa che rimane comunque avvolto nel mistero?
Nei miei romanzi cerco proprio di esplorare questa alternanza di dolore e di gioia, questa tensione continua che ci porta ad interrogarci per capire chi siamo, perché soffriamo, cosa ci lega, cosa ci rende unici. La felicità è spesso fragile, effimera, fatta di attimi. Ma anche il dolore, se vissuto con consapevolezza, può aprire varchi interiori, può trasformare, costringendoci a guardarci dentro, a trasformare la sofferenza in forza interiore. È questo, per me, il significato autentico della resilienza – un termine oggi molto abusato, ma che continuo a sentire come profondamente vero: la capacità di non spezzarsi, di trasformarsi, di andare oltre senza perdere la propria umanità.
Quanto alla morte, non riesco a considerarla solo come una fine. Per me è un passaggio, verso qualcosa che non possiamo comprendere ma che intuiamo. Nei miei romanzi torna spesso l’idea che esista una dimensione oltre quella visibile, che la coscienza non si spenga del tutto. Non si tratta di un’affermazione dogmatica, ma di un’intuizione: l’amore, la musica, certi legami profondi sembrano avere una natura che va oltre il tempo e la materia.
Nel mio romanzo inedito, Concorrenza al Paradiso, ho provato a immaginare quali sarebbero le conseguenze, nel mondo, se le persone avessero la certezza assoluta di ciò che le attende dopo la morte. Come cambierebbero le nostre priorità, i nostri comportamenti, i valori su cui costruiamo le società? È una favola moderna, ma anche una riflessione profonda sul bisogno umano di dare un senso alla nostra esistenza.
D – La Poesia e i poeti come (e dove) si collocano nell’esperienza letteraria di Patrizia Ciava?
La poesia ha avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione e continua ad accompagnare la mia scrittura in modo sotterraneo ma costante. Ho studiato all’estero, in Francia e in Inghilterra, e sono cresciuta leggendo e amando i grandi poeti di entrambe le tradizioni. Les Fleurs du mal di Baudelaire, le liriche di Verlaine, i romantici inglesi – Coleridge, Keats, Wordsworth – e, naturalmente, Shakespeare, hanno lasciato tracce profonde nella mia visione del mondo e del linguaggio.
Il senso amaro dell’esistenza che attraversa molte opere shakespeariane – penso a “life’s but a walking shadow…” o agli interrogativi di Amleto sull’essere e sul morire – ha influenzato profondamente il mio modo di vedere la vita e la morte. L’idea che restiamo legati a questa esistenza per paura di ciò che ci attende dopo è un nodo che ritorna nei miei romanzi, abitati da personaggi in cerca di verità, di significato, di trasformazione.
Il simbolismo di Baudelaire, in particolare L’Albatros, è un’immagine che porto con me quando penso al ruolo dell’artista: una figura spesso fraintesa, inadeguata, intrappolata in un mondo che non sente come proprio, ma capace, in volo, di una libertà e di una bellezza straordinarie. Anche il realismo magico e onirico di Coleridge, soprattutto nel The rime of the ancient mariner (La ballata del vecchio marinaio), ha nutrito la mia scrittura, con la sua tensione tra colpa, visione e possibilità di redenzione.
La poesia, per me, non è solo un genere letterario: è una forza che penetra negli strati più profondi della coscienza, capace di cambiare radicalmente il nostro modo di sentire, di vedere e perfino di vivere. Ricordo che da ragazza, dopo aver letto Confesso che ho vissuto di Pablo Neruda, ho deciso che quella frase sarebbe diventata il mio motto. Volevo poterla pronunciare anch’io, alla fine della mia esistenza terrena, senza rimpianti – senza aver mai rinunciato a cercare nuove esperienze, nuovi incontri, nuovi viaggi. Perché, in fondo, credo sia questo il vero senso della nostra vita: non smettere mai di sentire, di emozionarci, di sperimentare, di lasciarci trasportare dalla bellezza che ci circonda. Conservare intatta la capacità di sognare, di fantasticare, di meravigliarci per ogni piccola conquista. Fino all’ultimo giorno.
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